Roma segreta: il Fuoco Sacro e le Vestali del Foro Romano
«Per lungo tempo credetti, stoltamente, che ci fossero statue di Vesta,
ma poi appresi che sotto la curva cupola non ci sono affatto statue.
Un fuoco sempre vivo si cela in quel tempio e Vesta non ha nessuna effige,
come non ne ha neppure il fuoco» (Ovidio, Fasti).
Il fuoco da sempre è simbolo di una reale forza misteriosa cui vengono attribuiti molti significati: è un archetipo. Come calore esso è in grado di far cambiare “stato” a tutti gli elementi, come luce ha il potere di illuminare tutto ciò che lo circonda.
Nell’antica Roma al fuoco era riservata una devozione di particolare importanza associata a Vesta, dea del focolare. Vesta è l’equivalente di Estia la dea greca del focolare domestico, la primogenita di Crono e di Rea, sorella maggiore di Zeus. Corteggiata da Poseidone e da Apollo, la dea ottenne di poter mantenere per sempre la sua verginità, grandi onori e il culto in tutte le case degli uomini e nei templi.
Un fuoco ardeva quindi giorno e notte nel cosiddetto Atrium Vestae nel foro romano, tenuto in vita dalle vestali, sacerdotesse dedite al culto di Vesta. La Virgo Vestalis Maxima rappresentava simbolicamente l’intero collegio e formava col Pontifex Maximum una coppia sacerdotale identica a quella dei Flamini con le Flaminiche e del Rex Sacrorum con la Regina.
Queste ragazze erano prescelte dal Pontefice secondo determinate caratteristiche: dovevano avere tra i 6 e i 10 anni, godere di ottima salute e appartenere a famiglie patrizie con entrambi i genitori ancora in vita. Il loro “servizio” durava trenta anni e si suddivideva in tappe di dieci. I primi dieci anni erano novizie, i secondi dieci erano addette al culto e gli ultimi dieci istruivano le novizie. Trascorsi i trenta anni erano libere di tornare in società e di sposarsi oppure rimanere vestali.
Il loro abbigliamento era sobrio: lunghe vesti e mantelli bianchi; inoltre erano acconciate con parrucche, come si usava nel giorno delle nozze, perché i loro capelli venivano donati alla dea in segno di cambiamento radicale dei propri usi e costumi.
Ogni vestale doveva conservare per il periodo del servizio la propria verginità. La purezza fisica doveva coincidere con la purezza del cuore. Non a caso potevano testimoniare senza giuramento e godevano di larghi privilegi: ad esse erano riservati posti d’onore nei luoghi pubblici, erano mantenute a spese dello stato e potevano fare testamento, infine chiedere la grazia per un condannato a morte che avessero incontrato casualmente nel loro cammino. Non potevano però uscire senza essere accompagnate, anche qualora si fossero recate in altri templi per svolgere dei riti oppure incontrare alte personalità come il Pontefice o l’Imperatore.
Tra i loro compiti vi era la preparazione degli ingredienti per qualsiasi sacrificio pubblico o privato (come la “mola salsa”) ma, principalmente, la custodia del fuoco sacro che ardeva in ogni istante, tutti i giorni e tutte le notti dell’anno (tranne il 1 maggio, su cui ritorneremo). Il fuoco non doveva mai spegnersi perché simbolo dell’eternità dell’ Urbe, pena una dura punizione per la vestale responsabile del turno di sorveglianza.
Secondo la leggenda della fondazione di Roma, il fuoco sacro venne acceso per la prima volta da Romolo come simbolo dell’ eternità dell’ Urbe, sebbene il culto fosse preesistente e l’istituzione delle vestali esistesse anche prima di Roma, come intuibile dal fatto che la stessa Rea Silvia, madre di Romolo e Remo, fosse una vestale di Albalonga. Numa Pompilio, il celebre sacerdote sabino successore di Romolo, molto probabilmente rifondò e riformò il precedente ordine delle vestali.
Il fuoco sacro nel tempio di Vesta venne ufficialmente “spento” nel 391/394 d.C. per ordine dell’imperatore Teodosio che, a seguito dell’editto di Tessalonica (380 d.C.) e del riconoscimento del Cristianesimo come unica religione ufficiale, proibì i culti pubblici “diversi” e regolamentò la chiusura di tutti i templi pagani e dei relativi collegi sacerdotali, maschili e femminili.
Più o meno negli stessi anni venne teologicamente sancita l’impossibilità del sacerdozio femminile.
Il fuoco sacro è però sopravvissuto, anche nelle chiese cattoliche, sotto forma di Luce perennemente ardente davanti al Tabernacolo.
E da segnali recenti sembra che verrà anche riaperto pubblicamente, in un prossimo futuro, il discorso sul servizio sacro reso dalle donne.
Roma ha prodotto, vissuto e testimoniato tutti questi cambiamenti.
Autore: Valentina Maurizi
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